
Tieni in alto i piedi, dicevano.
di Sara Zanni
- Il mio 2020 è iniziato con una storta. Non una storta qualsiasi: la seconda di fila alla caviglia del piede destro. Presa nel modo più scemo possibile: saltando giù da un masso su cui ero salita per fare una foto in una chiesa rupestre a Gravina di Puglia, lungo il Cammino Materano. Quando senti l’articolazione che si fa un giro e poi torna dolorosamente a posto e a te mancano ancora due giorni di cammino per arrivare a Matera, sai che sarà un nuovo anno col botto.
Però, non c’era modo di fermarsi a pensarci su. Dopo Matera, gli impegni incalzavano: un trasloco da finire e poi i mesi di febbraio e marzo si annunciavano pieni di impegni per raccontare i cammini, iniziare la stagione, lanciare nuove attività, scrivere, camminare, progettare. Due mesi di treni e aerei per andare di qua e di là, di zaini da fare e disfare.
Poi, la consapevolezza che qualcuno stava giocando una partita su una tavola più grande della nostra. Quel qualcuno si chiamava COVID19, o almeno gli scienziati che l’hanno identificato lo hanno chiamato così, e le pedine eravamo noi. Ricordo la prima mail che scrissi sul tema: “Io verrei volentieri a Milano per quella presentazione, ma verificate che sia possibile, per favore: il governo ha vietato ogni tipo di evento pubblico all’aperto e al chiuso...”. Era poco dopo la metà di febbraio. Da quel giorno, il treno in corsa della mia agenda ha subito una brusca frenata. Eventi annullati, impegni cancellati, colloqui di lavoro e riunioni fatti via Skype, contratti firmati per posta, programmazione sospesa, l’orizzonte che si è ridotto improvvisamente a un quadrato di circa 7 metri per lato. E un sacco di gente che vuole scrivere di questa quarantena, parlare di questa quarantena, raccontare l’Italia in quarantena.
Questa è la mia quarantena. Nei primi dieci giorni ho scritto, ho avuto paura per le persone che amo, ho prodotto spunti e idee incoraggianti per chi mi segue sui canali social, ho lavorato più di prima, ho cercato di essere positiva, di pulire casa, di cucinare bene. Poi ho guardato le foto dei cammini fatti e mi sono trovata a piangere. Mi sono fermata, perché questo ci spinge a fare una quarantena: fermarci. Stare fermi, aspettare, respirare. Non fare nulla. Mi sono fermata e mi sono detta che sarebbe passato tutto in fretta. Come quando ti sottoponi a un esame sgradevole, mettiamo una gastroscopia: il tecnico ti spiega cosa succederà, ti suggerisce di fare respiri profondi quando ti infilerà la sonda in gola, per evitare i conati di vomito, ma di stare tranquillo, che quando la sonda avrà passato l’ingresso dello stomaco, non ti darà quasi più fastidio. Di ascoltare e di fare quello che ti dice lui. E andrà tutto bene. Bene. Io sono bravissima con gli esami sgradevoli. Eseguo pedissequamente, non mi lamento mai e tutto finisce più in fretta di quello che temessi all’inizio.
E anche questa volta ho fatto così: mi sono chiusa in casa, ho rispettato una rigorosa autoquarantena fiduciaria perché temevo di essere stata esposta al virus, non ho avuto contatti con nessuno. Ho rispettato alla lettera le indicazioni di quel buonuomo che ogni tanto appare a reti unificate in giacca e cravatta blu a raccontarci quanto ci stiamo comportando bene e coraggiosamente. E a restringere sempre di più il mio orizzonte. Prima ho dovuto abbandonare ogni velleità di andare a fare quattro innocui passi solitari in un bosco perché richiedeva la macchina, poi di rivedere la mia famiglia entro breve (sono in un’altra Regione), poi la clausura entro i limiti comunali. E, ogni volta che lo vedo apparire in televisione, sento il rumore delle paratie metalliche del sottomarino che chiudono ermeticamente i vari scomparti quando l’acqua sta invadendo la nave.
SBAM! Evitate i viaggi e lavorate in smart working.
SBAM! Non prendete la macchina.
SBAM! Restate a casa, uscite solo in caso di estrema necessità.
SBAM! Non uscite dal vostro Comune
SBAM! Scherzavamo quando parlavamo di 3 settimane di reclusione, starete chiusi in casa finché non lo decidiamo noi sulla base di parametri al momento sconosciuti, perché i rilevamenti statistici sono insensati e li manipoliamo quotidianamente per controllare il dissenso e convincervi che va tutto bene.
E ho smesso di ascoltare le raccomandazioni sul respirare a fondo finché la sonda non avesse passato il punto cruciale. Ho inevitabilmente iniziato a sentire lo stomaco ribellarsi. Un inesorabile rifiuto per gli striscioni ottimisti, per gli arcobaleni, per tutti i post sui social in cui la gente dice quanto vada tutto bene, propone pseudo-rimedi casalinghi, canzoni, buongiornissimi, ricette, torte, bustine di lievito scomparse, desiderio di abbracciare persone che non si considerano da anni e improvvisamente mancano come un pezzo di cuore, fiammate di patriottismo e di complottismo ... La mia quarantena è la vittoria del cinismo, dell’autoreferenzialità e del senso di claustrofobia.
Più sto sul divano e più ci starei, ma, più di tutto, temo il giorno in cui ci lasceranno uscire più o meno liberi e rischiamo che si scateni la solita ciambotta italiana di abbracci strappalacrime in mezzo alla strada in stile fine della guerra. Confido che, almeno, il COVID19 ci insegnerà a mantenere delle sane distanze sociali e a temere le effusioni superflue con sconosciuti, perché questo significa che, quando sarò libera di uscire dal mio quadrato di 7 metri per lato, non sarò intralciata da nessun paio di sconosciute braccia protese e potrò raggiungere con una traiettoria dritto per dritto la cima di un monte. Sedermi lassù, nel silenzio, che è un silenzio più bello e più lieve di quello che c’è nel mio salotto, e respirare. Respirare davvero, mentre lo sguardo spazierà sulle schiene delle montagne, sui boschi che saranno tornati verdi, mentre io ero rinchiusa. Annusare il profumo dell’estate dopo essermi persa la primavera. Aspettare che il sole faccia il suo giro sopra di me e, magari, godermi un tramonto, con i rumori della montagna che cambiano e il profumo dell’umidità della sera che torna a salire.
Allora potrò respirare e programmare, immaginare passi e posti sconosciuti, avventure da vivere e mete da raggiungere. Ma, fino ad allora, il massimo che farò sarà vivere un’attesa grigia, coi piedi in aria, come alla fine di una lunga tappa. Perché quest’anno è iniziato con una storta al mio piede buono e dicono che tenere in alto i piedi aiuti a recuperare.
P.S.: La pubblicazione di questo racconto è andata per le lunghe. La mia quarantena è andata davvero così, se escludete una serie infinita di videochiamate Zoom (ma chi ha mai usato prima Zoom in Italia?!) per parlare di come far ripartire i cammini. E voi direte: a piedi, no?! Già, sono d’accordo. Ma oggi siamo all’epilogo (spero che non ci siano sequel, perché risultano sgradevoli già quelli dei migliori film): sono uscita, pantaloncini, scarpe da trail, borraccia e barretta proteica nello zainetto e sono andata su, dritto per dritto in cima a un monte, da sola. Per qualche chilometro, ho condiviso piste ciclabili e marciapiedi con un sacco di gente, tutte a rigorosa distanza e con mascherine. Poi, ho iniziato a salire fra gli alberi e le persone, via via, sono sparite. Ho ripreso a respirare, a vedere i colori, mi sono seduta in cima al monte e ho pianto. C’è ancora qualche ginestra in fiore, le robinie sono tutte bianche, le api ronzano, le orchidee selvatiche sono tutte lì e, soprattutto, se andate nel bosco e state zitti, le lepri vi tagliano la strada e gli uccelli si sono dimenticata di noi e cantano forte come non li avevo mai sentiti. Andate a vedere, ma fate piano. Per una volta, cerchiamo di non disturbare.